INTRODUZIONE
Con l'inizio del Concilio
e con la promulgazione della Pacem in terris Papa Giovanni conclude virtualmente
la propria vita. Tutto il resto, adesso, per lui, conta fino ad un certo punto.
Abbandonato serenamente alla volontà di Dio, continua, giorno per giorno
a "far bene il Papa". Le udienze consuete, le cose comuni, la routine uguale che
non manca nemmeno nella vita di un Papa, sono le occasioni in cui perfeziona
ininterrottamente il proprio contatto con gli uomini, il dono definitivo di
sé.
Egli non ha potuto salutare l'alba di alcune giornate storiche
per la Chiesa dei nostri tempi, ma non le ha né invidiate né
rimpiante: ha fatto bene quello che doveva fare, con uno spirito che era in
grado di vivere ancora per anni ed insieme di accettare la morte all'istante. La
lezione ascetica più positiva e confortante di Papa Giovanni è
proprio questo abbandono alla volontà di Dio, e il frutto che svela
è la profonda pace dello spirito che ne ha ricavato, per sé e, in
un certo senso, anche per noi.
Il 1963 è l'anno del congedo.
E
non solo di quello di Papa Giovanni, ma anche del congedo dei due interlocutori
più degni del suo livello umano: Kennedy e Krusciov. Il 3 giugno muore il
papa. Il 22 novembre viene assassinato a Dallas il presidente degli Stati Uniti;
poco dopo scompare dalla scena politica lo stesso Krusciov. Non è mai
potuto avvenire ciò che molti uomini di buona volontà hanno
sognato in quegli anni: un incontro fra i tre.
Molti si domandano ancora
oggi: che cosa sarebbe accaduto se essi avessero potuto incontrarsi, soprattutto
dopo che la crisi di Cuba era stata superata e l'umanità cominciava
nuovamente a respirare e sperare? Difficile dire; ma sognare che cosa ne sarebbe
scaturito non è illecito: pochi, dopo la fine della guerra, sono stati
gli uomini che come questi tre abbiano, ciascuno in un contesto del tutto
particolare, autorizzato l'umanità a sperare in un sogno che era sembrato
assurdo anche semplicemente sognare: L'«ecumenismo» da una parte, la
«nuova frontiera» e il «disgelo» dall'altra sono stati segni
di un processo di evoluzione profonda, nella Chiesa e nella società
civile, che richiederà forse ancora decenni per maturare i frutti
più giusti, ma che è stato assunto come legittimo da tutti e tre
nei rispettivi settori. In esso stanno le premesse a tutti gli sviluppi positivi
di domani.
Krusciov - che sembra lo desiderasse - non riuscì ad
incontrarsi con Papa Giovanni. E non lo poté nemmeno Kennedy. Il Papa
sapeva che la pace, nei giorni ansiosi di Cuba, era stata salvata anche dalla
fermezza del giovane presidente americano e dal capo russo, che si era mostrato
improvvisamente remissivo.
Papa Giovanni decise di donare a Kennedy una
copia della Pacem in terris con firma autografa, in segno di solidarietà
e di riconoscenza per quanto il presidente aveva fatto in favore della pace. Una
copia del grande documento, senza firma autografa, fu inviata anche a
Krusciov.
Alla Pacem in terris giunse il plauso da tutto il
mondo.
Kennedy, il 20 aprile 1963, fu invitato a tenere il discorso
ufficiale per il centenario di fondazione dell'Università cattolica di
Boston, la sua città natale. Davanti ad una folla immensa di professori e
di studenti, il presidente parlò soprattutto della grande enciclica che
era uscita l'11 dello stesso mese.
«Come cattolico - disse - vado
orgoglioso di questa enciclica; e come americano ne ho tratto un grande
insegnamento. Nella sua penetrante analisi dei grandi problemi d'oggi (benessere
sociale, diritti umani, disarmo, ordine internazionale, pace) questo documento
dimostra sicuramente che, sulla base di una grande religione e della sua
tradizione, può svilupparsi un suggerimento in materia di pubblici
rapporti che è utile a tutti, uomini e donne di buona
volontà».
Un giornale di New York commentava, a sua volta:
«Il Papa guardava il mondo sotto tutti i suoi aspetti: belli, brutti,
tranquilli, tempestosi - con uno sguardo in cui risplende un'inalterabile
serenità. Noi gli diciamo grazie».
Papa Giovanni capiva che il
mondo andava più verso la pace che verso la guerra. Era un mondo che, in
virtù delle grandi invenzioni della scienza e della tecnica, si andava
facendo sempre più piccolo; le distanze erano sempre più brevi; e
gli uomini, anche se avversari, dovevano necessariamente vivere gomito a gomito.
Tutto imponeva la pace più che la guerra. Ma erano sempre troppi coloro
che pensavano di poter affrontare e risolvere i gravi problemi della nostra
epoca piuttosto con la guerra che con la pace.
Il motivo di maggior terrore stava nell'uso
incontrollato che tanto la Russia che gli Stati Uniti avrebbero potuto fare, da
un momento all'altro, della scorta atomica in loro possesso. Era stato fatto un
calcolo molto preciso: in caso di guerra atomica ogni uomo, per essere ucciso,
potrebbe disporre dell'equivalente di ottanta tonnellate di tritolo.
Tutti
dicevano, e continuano a dire, che la fabbricazione, la moltiplicazione
indiscriminata di quelle bombe, era la garanzia più concreta per la pace.
Ma Papa Giovanni guardava con l'occhio del Vangelo, non con l'occhio della
violenza e del terrore, alle condizioni del mondo. Restava sopra la mischia, per
poter dire parole d'eguale efficacia per ambedue i contendenti. Sapeva che il
sessanta per cento del reddito annuo dei due blocchi andava a finire nella
fabbricazione delle atomiche, anziché in un accrescimento del benessere
dei poveri e dei sottosviluppati. Per questo aveva voluto che l'enciclica, a
garanzia della pace, riproponesse coraggiosamente il tema della giustizia non
solo fra gli uomini, ma anche fra i popoli, per poter contare su una base
realistica il giorno che si fosse cominciato a parlare sul serio di pace e di
disarmo.
Pochi furono in verità coloro che, più o meno
sottovoce, accusarono il Papa d'essere troppo ottimista. Egli lo seppe, e dette
conto, serenamente, anche di questa accusa davanti al popolo. Durante una visita
alla popolosa parrocchia di san Basilio, disse: «Nel mondo c'è il
male, ma esiste anche il bene. Qualcuno dice che il Papa è troppo
ottimista, che non vede che il bene. Ma io non so distaccarmi dal Signore che
non ha fatto altro che diffondere il bene e che più che sul no ha sempre
insistito sul sì» Era riassunto, in semplici e brevissime parole,
tutto il significato del magistero e del ministero del pontificato
giovanneo.
Ernesto Balducci ha scritto che «senza dissimulare le
premesse soprannaturali da cui la religione cristiana parte, l'enciclica
preferisce muoversi entro il quadro della ragione naturale e della comune
esperienza storica. Il realismo cristiano ha fiducia nella razionalità
umana, che sebbene sia altra cosa dalla fede, è però custodita e
presupposta dalla fede. Il cristianesimo non è una setta religiosa
costretta a difendersi dalla ragione con ostinazioni fanatiche e con evasioni
fideistiche; esso è la religione dell'Uomo, ed è in grado di
adottare, all'interno del superiore lume della fede, il lume della
ragione».
L'O.N.U., nel ventennale della propria fondazione, quando si
dovette cercare un testo di valore universale su cui basare i temi della pace da
discutere ed affrontare a livello mondiale, non trovò di meglio, nel
1964, che scegliere la Pacem in terris. E l'uomo politico che andò a New
York a rappresentare l'Italia in quell'occasione non a caso fu un socialista di
antica osservanza: Pietro Nenni. E fu a lui, al ritorno, che Paolo VI
donò un orologio d'oro che era stato donato a Papa
Giovanni.
L'enciclica ha raggiunto tutti gli uomini e tutti i paesi della
terra, eccetto, forse, la Cina e l'Albania. Purtroppo anche in vecchi paesi
cattolici essa dovette entrare quasi clandestinamente, e tuttora significa
divisione ed attrito. In Spagna, gli scioperi degli ultimi anni partono, in
definitiva, dalle premesse della Mater et Magistra e della Pacem in terris; e
non serve a nulla e a nessuno ostinarsi ad ignorare la portata evangelica, e
perciò salutarmente sovvertitrice, dei due grandi documenti sociali di
Papa Giovanni.
Sarebbe ardito comunque pretendere che la enciclica possa
essere assunta come «carta» ideale ed ufficiale, in un'eventuale
contesa fra i due blocchi in via d'accordo. Non può e non deve essere
posta in alcuna prospettiva politica specifica. La sua forza sta principalmente
nell'essere sopra la mischia, nel restare un afflato di spirito concretato in
parole nuove, una indicazione dell'essenziale, un rammentare i valori universali
della redenzione di Cristo e della coscienza naturale quali dati insopprimibili
e inalienabili per la costruzione della vera pace nel mondo. Ciò non
toglie che le derivazioni legittime, anche in terreno strettamente politico,
siano innumerevoli, come dimostrarono a suo tempo i commenti di tutta la stampa
internazionale.
Giovanni XXIII parla ai giornalisti
L'ENCICLICA DELLA COESISTENZA
U' Thant fu uno dei primi a congratularsi col
Papa. In una conferenza stampa, l'11 aprile stesso, disse: «È con senso di
profonda soddisfazione che ho letto l'enciclica Pacem in terris. È
indubbiamente a causa del significato universale della pace che il messaggio
è stato, indirizzato non solo ai fedeli della Chiesa cattolica, ma a
tutti gli uomini della terra. Posso ben comprendere la profonda emozione che
Papa Giovanni XXIII ha detto di aver provato nel firmare questo documento di
lungimirante portata, poiché, rivolgendo i suoi pensieri alla pace del
mondo in quest'èra nucleare, egli in realtà ha lanciato un appello
per la sopravvivenza dell'uomo, per l'applicazione del sapere umano non alla
morte, ma alla vita, e per la dignità dell'uomo in una comunità di
comprensione... Il contenuto dell'enciclica è certamente in accordo con i
principi e gli obbiettivi delle Nazioni Unite. Esso rappresenta un salutare
richiamo al fatto che l'umanità gioca ancora la propria sorte in un
precario equilibrio sulla fatale bilancia della devastazione
nucleare».
Il ministro francese della giustizia, Fayer, la
definì l'«enciclica della coesistenza».
Anche i
«laici» italiani di più stretta osservanza si dichiararono
entusiasti del documento. Paese sera scrisse: «Ci troviamo di fronte ad una
profonda innovazione negli orientamenti della Chiesa cattolica: si deve
prenderne atto senza riserve e con vivo compiacimento». Giuseppe Saragat
scrisse «La Pacem in terris è un incomparabile strumento di lavoro
nella ricerca della pace stabile fondata sulla giustizia e sulla
libertà». Secondo l'Avanti! l'enciclica segna «una svolta di
straordinaria importanza, e apre la prospettiva di un'occasione storica che
viene offerta ai cattolici per riconciliare definitivamente, nella loro,
coscienza e nella loro azione, la sfera politica con la sfera
religiosa».
Ciò che segnava davvero il progresso fondamentale
nei rapporti coi «laici», era, nell'enciclica, la distinzione chiara e
irreversibile tra errore ed errante. L'errore dev'essere sempre combattuto,
l'errante dev'essere sempre compreso ed amato, proprio dal punto di vista
evangelico. D'altronde, quella distinzione non era che l'applicazione del
Vangelo a una situazione storica e sociale particolarmente maturata in senso
positivo. Era sempre il Vangelo vivo che, nel magistero di Papa Roncalli, veniva
ad essere ripresentato come il più attuale di tutti i messaggi capaci di
salvare l'uomo e la società.
Ormai Papa Giovanni non s'illudeva
più: sentiva d'essere alla fine della vita.
Era da tanto che si
trovava in navigazione. Il porto era già vicino. Anche la gioia per il
successo dell'enciclica era per lui una conferma che ormai non gli restavano
più molte cose da dire e da dare agli uomini. Il «secondo
pilastro» del suo lavoro di «servo dei servi di Dio», era stato
gettato: l'enciclica rispecchiava già il futuro del Concilio, soprattutto
la dichiarazione sulla libertà religiosa. Enciclica e Concilio
s'integravano a vicenda. Agli altri sarebbe toccato sviluppare il seme gettato
con tanta consapevole chiarezza.
Nei frammenti di pensieri pubblicati da
L'Osservatore Romano, Papa Giovanni scriveva già nel 1935: «La vita
è una grande navigazione. Durante il viaggio si piange per il distacco
dalle persone care. Ma ecco che all'arrivo quelle stesse persone stanno
già al porto ad attenderci». Anche la morte vicina era per lui un
fatto in certo senso domestico, patriarcale: era il ricongiungimento alle
creature e ai valori fondamentali che avevano fatto di lui il sacerdote e il
pontefice, senza attenuarne in nulla le facoltà native, quel senso
patriarcale della vita e del vivere insieme che era sempre stata una sua
evidente e conquistante caratteristica.
Spesso, riguardando con tenerezza
le foto sbiadite di tutti i suoi cari che lo avevano preceduto nella tomba, Papa
Giovanni si sentiva intenerire il cuore di gratitudine. Avrebbe voluto dire un
grazie continuo, profondo a tutti i suoi cari che restavano sulla terra a
simboleggiare la continuità della famiglia sana e generosa che gli aveva
dato il cuore sensibile e l'entusiasmo del bene.
Fu in quello spirito che
agli uomini di tutto il mondo aveva scritto le due grandi encicliche sulla
giustizia e sulla pace. Ma anch'esse erano nate da quello stesso spirito che
aveva dettato, nel dicembre del 1961, la più bella lettera
«privata» di Papa Giovanni: quella al fratello Zaverio e a tutti i
parenti. Essa è un po' il testamento domestico del grande Papa, che vi
proclama i principi più semplici ed efficaci tanto della propria
spiritualità che della propria tenerezza.
È giusto rileggere quella
lettera, accanto al testamento, vero e proprio per capire il mondo interiore di
Papa Giovanni, la radice da cui è scaturito, in definitiva, anche il suo
mirabile pontificato.
Zaverio è chiamato Severo, e tutta la
«tribù» dei Roncalli vi è salutata e ringraziata come la
parte più viva e vicina dell'intera umanità. La voce del sangue,
in Papa Giovanni, è diventata voce dello spirito, ma senza nulla perdere
della sua concretezza umana e psicologica. Don Primo Mazzolari, nel 1958,
scrivendo ad un amico, poco prima di morire, aveva intuito tutto questo:
«Finalmente abbiamo un Papa di carne!»
Ecco la
lettera.
Vaticano, 3 dicembre 1961
«Mio caro fratello
Severo,
oggi è la festa del tuo patrono - quello del tuo nome vero e
proprio, che è San Francesco Zaverio, come si chiamava il nostro caro
barba, ed ora felicemente il nostro nipote Zaverio.
«Penso che sono
passati tre anni da quando cessai di scrivere a macchina, come mi piaceva tanto;
e se mi sono deciso a riprendere l'uso e ad adoperare macchina nuova e tutta per
me, l'ho voluto fare per dirti che so' d'invecchiare, con tanto rumore che si
è fatto per i miei ottant'anni compiuti, ma che continuo a star bene, e
che riprendo il buon cammino ancora in buona salute anche se qualche disturbetto
mi fa dire che ottanta non sono né sessanta né cinquanta e per ora
almeno, posso continuare il buon servizio del Signore e della Santa
Chiesa.
«Questa lettera, che volli proprio scrivere al tuo indirizzo,
mio caro Severo, come voce che arriva a tutti, ad Alfredo, a Giuseppino,
all'Assunta, alla cognata Caterina, alla tua cara Maria, a Virgilio e Angelo
Ghisleni, come a tutti i componenti le nostre discendenze, desidero che sia per
tutti espressione del mio affetto sempre vivo, e sempre giovane. Occupato come
sono e come voi sapete, in un servizio così importante a cui sono rivolti
gli occhi del mondo intero, non posso dimenticare i miei diletti familiari ai
quali nelle giornate torna il mio pensiero.
«Ho piacere di constatare
come, non potendo voi tenervi in corrispondenza personale con me, come una
volta, voi potete tutto confidare a mons. Capovilla che vi vuole molto bene, e a
cui voi potete dire tutto, come fareste con me stesso.
«Vogliate
ricordare che questa è una delle pochissime lettere private che io ho
scritto ad alcuno della mia famiglia, durante i passati primi tre anni del mio
pontificato; e vogliate compatirmi se non posso fare di più neanche colle
persone del mio sangue. Anche questo sacrificio che io m'impongo nei miei
rapporti con voi, fa a voi ed a me più onore, e guadagna più
rispetto e simpatia che voi possiate credere ed immaginare.
«Ora le
grandi manifestazioni di riverenza e di affezione al Papa, per la ricorrenza
degli ottant'anni, prendono fine, e io ne godo perché preferisco, alle
lodi ed agli auguri degli uomini, la misericordia del Signore, che mi ha eletto
a un impegno così grande, che desidero mi sostenga fino al termine della
mia vita.
«La mia tranquillità personale che fa tanta
impressione nel mondo, e tutta qui. Stare alla obbedienza come ho sempre fatto,
e non desiderare o pregare di vivere di più, neanche di un giorno, oltre
il tempo in cui l'angelo della morte mi verrà a chiamare e a prendere per
il paradiso, come confido.
«Ciò non mi impedisce di ringraziare
il Signore perché abbia voluto proprio scegliersi a Brusìcco e
alla Colombera quello che doveva chiamarsi successore diretto di tanti Papi
durante venti secoli, ed a prendere il nome di Vicario di Gesù Cristo in
terra.
«Per questa chiamata il nome dei Roncalli fu portato alla
conoscenza, alla simpatia e al rispetto di tutto il mondo. E voi fate bene a
tenervi in umiltà, come mi studio di fare anch'io, e a non lasciarvi
prendere dalle insinuazioni e dalle ciance del mondo. Il mondo non si interessa
che di far soldi; godere la vita e imporsi ad ogni costo, anche, se
disgraziatamente occorre, con prepotenza.
«Gli ottant'anni passati
dicono a me come a te, caro Severo, e a tutti i nostri, che ciò che
più conta è di tenerci preparati e sempre, a partire d'improvviso;
perché questo è ciò che più vale: assicurarsi
l'eterna vita, confidando nella bontà del Signore che tutto vede e a
tutto provvede.
«Questi sentimenti amo esprimere a te, mio carissimo
Severo, perché tu li trasmetta a tutti i nostri più intimi parenti
della Colombera, delle Gerole, di Bonate e di Medolago e dovunque si trovino e
di cui neanche conosco esattamente il paese. Lascio alla tua discrezione il modo
di farlo. Penso che la Enrica potrebbe aiutarti, e don Battista
anche.
«Continuate a volervi bene fra voi tutti Roncalli, componenti
le nuove famiglie, e sappiate comprendermi se non posso scrivere a ciascuna
famiglia. Ha ragione il nostro Giuseppino quando dice a suo fratello Papa: 'Voi
qui siete un prigioniero di lusso che non può fare tutto ciò che
vorrebbe'.
«Piacemi ricordare i nomi di chi più soffre fra voi:
la cara Maria, tua moglie benedetta, e la buona Rita che ha assicurato colle sue
sofferenze il paradiso per sé e per voi due che l'avete assistita con
tanta carità; la cognata Caterina che mi ricorda sempre il suo e nostro
Giovanni che dal cielo ci guarda; insieme coi nostri parenti Roncalli e parenti
più vicini, come quelli della emigrazione milanese.
«So bene
che voi avrete a subire qualche mortificazione da parte di chi vuol ragionare
senza buon giudizio. Avere un Papa in famiglia, a cui si volgono gli sguardi
rispettosi di tutto il mondo, e vivere - i suoi parenti - così
modestamente, lasciandoli nelle loro condizioni sociali! Intanto, molti sanno
che il Papa, figlio di umile ma onorata gente, non dimentica nessuno, ha e
dimostra cuore buono per tutti i suoi più prossimi parenti; e che del
resto la sua condizione è quella di quasi tutti i suoi recenti
antecessori, e che l'onore di un Papa non è di far arricchire i suoi
parenti, ma solo di assisterli con carità, secondo i loro bisogni e le
condizioni di ciascuno.
«Questo è e sarà uno dei titoli
di onore più belli e più apprezzati di Papa Giovanni, e della sua
famiglia Roncalli.
«Alla mia morte non mi mancherà l'elogio che
fece tanto onore alla santità di Pio X: nato povero e morto
povero.
«È naturale che avendo io compiuto gli ottanta, anche tutti
gli altri mi vengano dietro. Coraggio, coraggio. Siamo in buona compagnia. Io
tengo sempre vicino al mio letto la fotografia che raccoglie, coi loro nomi
scritti sul marmo, tutti i nostri morti: nonno Angelo, barba Zaverio, i nostri
venerati genitori, il fratello Giovanni, le sorelle Teresa, Ancilla, Maria e
Enrica. Oh, che bel coro di anime che ci aspettano e pregano per noi! Io penso a
loro sempre. Il ricordarli nella preghiera mi dà coraggio e mi infonde
letizia, nella fiduciosa attesa di congiungerci a loro tutti insieme nella
gloria celeste ed eterna.
«Vi benedico tutti, insieme ricordando le
spose tutte, venute ad allietare la famiglia Roncalli o passate ad accrescere la
gioia di nuove famiglie, di diverso nome, ma di eguale sentimento. Oh, i
bambini, i bambini, quale ricchezza, e quale
benedizione!».
Joannes XXIII
DIECIMILA LIRE A TESTA
Tutto ciò che di materiale Papa Giovanni
avrebbe voluto lasciare ai fratelli erano diecimila lire. Aveva vissuto e si
accingeva a morire in uno dei più ricchi palazzi del mondo, eppure moriva
povero com'era nato. Tutta la ricchezza che aveva attorno non gli apparteneva.
Di suo aveva ben poco: quanto sarebbe bastato per lasciare a ciascun fratello
diecimila lire.
Nel testamento, scritto a Venezia nel 1954, completato e
confermato a Castelgandolfo nel 1961, (lo stesso anno della lettera a Zaverio)
dice: «Voglio che alla mia morte sia dato sul denaro che mi appartenesse un
piccolo segno di lire italiane diecimila per ciascuno ai miei carissimi fratelli
Zaverio, Alfredo, Giovanni e Giuseppino, nonché alla famiglia complessiva
delle sorelle Teresa defunta ed Assunta. Ho sempre amato tutti e tutte, fratelli
e sorelle, con eguale sentimento».
Aveva pensato anche ai poveri, come
sempre. Per essi si sarebbero dovuti vendere i suoi abiti e gli oggetti
più preziosi che non fossero già stati lasciati a parenti o amici:
«Il ricavato - dice il testamento - sia convertito in danaro per i poveri
di Venezia, non avendo io di che disporre per questi più vicini al cuore
del vescovo come poveri di Cristo, che prego di accompagnarmi alla
eternità colle loro preghiere. Egualmente le mie croci ed i miei anelli
vengano venduti con cura al più alto prezzo, e il danaro ricavatone sia
dato egualmente ai poveri sotto le forme che si crederanno le più
opportune».
Se non fosse diventato Papa lui stesso, aveva stabilito di
lasciare un piccolo dono anche al Papa: cinquantamila lire, «come tenue ma
significativo obolo di amor filiale».
Aveva deciso che a disporre per
la sua sepoltura fosse il segretario particolare. Avrebbe voluto essere sepolto
nella cripta della basilica di San Marco, vicino all'Evangelista, con tutti gli
altri patriarchi che lo avevano preceduto.
Nessun altro documento rende con
uguale efficacia il senso della spiritualità di questo «patriarca
dei poveri» quanto il «testamento spirituale».
Si tratta di
un testo che non ha riscontro se non nell'esperienza e nella testimonianza di
anime dello stesso tipo, e consumate nella verità e nella carità
allo stesso livello. Eccone alcune pagine: «Chiedo perdono a tutti coloro
che avessi inconsciamente offeso; a quanti non avessi recato edificazione. Sento
di non aver nulla da perdonare a nessuno, perché in quanti mi conobbero
ed ebbero rapporti con me - mi avessero anche offeso o disprezzato o tenuto,
giustamente del resto, in disistima, o mi fossero stati motivo di afflizione -
non riconosco che dei fratelli e dei benefattori, a cui sono grato e per cui
prego e pregherò sempre.
«Nato povero, ma da onorata ed umile
gente, avendo distribuito secondo le varie esigenze della mia vita semplice e
modesta, quanto mi venne fra mano - in misura assai limitata del resto - durante
gli anni del mio sacerdozio e del mio episcopato. Apparenze di agiatezza
velarono talora, anzi sovente, nascoste spine di affliggente povertà e mi
impedirono di dare sempre con la larghezza che avrei voluto. Ringrazio Iddio di
questa grazia della povertà di cui feci voto nella mia giovinezza,
povertà di spirito, come Prete del Sacro Cuore, e povertà reale; e
che mi sorresse a non chiedere mai nulla, né posti, né danari,
né favori, mai, né per me, né per i miei parenti o
amici.
«Alla mia diletta famiglia secondo il sangue - da cui non ho
ricevuto nessuna ricchezza materiale - non posso lasciare che una grande e
specialissima benedizione, con l'invito a mantenere quel timore di Dio che me la
rese sempre così cara ed amata, anche semplice e modesta, senza mai
arrossirne: ed è il suo vero titolo di nobiltà. L'ho anche
soccorsa talora nei suoi bisogni più gravi, come povero coi poveri, ma
senza toglierla dalla sua povertà onorata e contenta. Prego e
pregherò sempre per la sua prosperità, lieto come sono di
constatare anche nei nuovi e vigorosi germogli la fermezza e la fedeltà
alla tradizione religiosa dei padri, che sarà sempre la sua fortuna. Il
mio più fervido augurio è che nessuno dei miei parenti e congiunti
manchi alla gioia del finale eterno ricongiungimento... Tutti ricordo, per tutti
pregherò... Miei figli, miei fratelli, arrivederci. Nel nome del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo».
Il testamento era stato scritto da
patriarca. Fu confermato anche da Papa. Non c'era nulla da dover cambiare. La
fede e il cuore di Roncalli erano rimasti sempre gli stessi.
«MI SENTO PIENO DI ENERGIE»
Forse il santo padre è più malato di
quanto noi possiamo immaginare.
Il card. Ritter, arcivescovo di St. Louis,
aveva da alcuni mesi gettato l'allarme ed invano si era diffuso un angosciato
bisogno di smentita ad una notizia del genere. Papa Giovanni fece più
volte tutto il possibile per rasserenare vescovi e fedeli, ma un presentimento
andava sempre più serrando il cuore di tutti.
Davanti a questi
allarmi non furono pochi coloro che ricollegarono l'aspetto disfatto del
Pontefice, quale era apparso nelle ultime cerimonie in San Pietro, con l'ipotesi
che non si trattasse soltanto di stanchezza, ma anche di un male che non
perdonava.
Ai bambini dell'ospedale del Gianicolo, come si è visto,
Papa Giovanni aveva dato motivo di ottimismo e di fiducia. Ma lui sapeva.
«Mi sento pieno di energie», aveva detto ai bambini, dell'ospedale del
Gianicolo, ma con la speranza che tutti credessero a ciò che egli diceva.
Per nulla al mondo avrebbe voluto rattristare tutti coloro che guardavano a lui
con tenerezza ed ansia. «Speriamo che il Papa possa almeno arrivare alla
fine del 1963» aveva detto ancora il cardinale Ritter: ed era stato
profeta, purtroppo: la fine del 1963 il Papa non l'avrebbe vista.
Tuttavia
Papa Giovanni continuò con semplicità e coraggio a fare tutto
ciò che doveva fare, e a farlo nel migliore dei modi. Egli solo ha saputo
il prezzo di fatica che, nelle ultime settimane, gli costava anche il più
semplice disbrigo delle pratiche, la consuetudine delle udienze private e
pubbliche. Ora che il Concilio e la Pacem in terris erano una realtà, e
il mondo s'era «svegliato» e stava guardando alla Chiesa come ad
«un faro di luce» proprio come Papa Giovanni aveva sperato, egli
poteva cantare, nel proprio cuore il Nunc dimittis. Era nelle mani del Signore,
e non restava che fare in pace l'ultimo atto di obbedienza.
«Ci siete
cari come la pupilla dei nostri occhi» - dice il 4 maggio davanti ai
bambini del primo pellegrinaggio del «rosario vivente». Le immagini
dell'infanzia - come sempre accade ai «puri di cuore» - si sposano, ai
suoi occhi, con quelle della vecchiaia, e tutto torna al primo equilibrio. Si
rende conto che il «tornare fanciulli» di Cristo non è una
bella parola soltanto, ma una profonda legge ascetica di sublimazione e di
trasfigurazione che, realizzata, dona una pace che non ha confini.
Da ora,
tutto ciò che accade intorno a lui sembra interessarlo solo quanto basta
per dargli sempre nuove occasioni per precisare ed approfondire tutto ciò
che ha fatto e ha detto precedentemente. Il 10 maggio, in due cerimonie solenni,
riceve il Premio Balzan, l'11 accetta di recarsi in visita al Quirinale, per
restituire al presidente Segni la visita del giorno prima da costui compiuta in
Vaticano.
Chi vide quel giorno da vicino il volto di Papa Giovanni non
dimentica i segni che ci vide: i segni della fine imminente, anche se nessuno,
in quell'ora di festa, poteva con sicurezza immaginare che solo venti giorni
separavano il Papa dalla morte.
Il 22 maggio venne sospesa la prevista
udienza pubblica in San Pietro. Il Papa si limita a benedire i fedeli dalla
finestra dello studio privato. Il 24 maggio c'è una sensibile parentesi
di serenità nella sua salute, ed egli decide subito di iniziare un ritiro
spirituale in preparazione alla festa di Pentecoste, che cade il 2 giugno. Non
sa nemmeno lui che si tratterà sì della preparazione alla
Pentecoste, ma anche e soprattutto della preparazione alla morte.
Il 25
maggio nuove ansie trapelano dal Vaticano, e ne è scossa tutta l'opinione
pubblica. Gli accenni alla salute del Papa sono ormai troppo frequenti. Nessuno
si illude più. Non si attende che un miracolo. Ma che il Papa riesca
ancora ad andare, a parlare, a ricevere è già un miracolo per se
stesso. Ma un miracolo che non durerà se non qualche giorno.
L'abbraccio di Papa Giovanni XXIII al neo-eletto vescovo Monsignor Dino Staffa
L'ABBRACCIO AL PRESIDENTE
In Quirinale Papa Giovanni era giunto felice, col
volto soffuso di una mesta ma profonda letizia. In fondo, quel contatto con
l'antica dimora dei Papi ora sede della Repubblica italiana, significava,
cioè, la cancellazione totale e definitiva di ogni traccia del passato,
sia nei suoi attriti che nelle sue illusioni, per quanto riguardava i diritti
dei Pontefici romani sull'antica sede.
Era anche un implicito
riconoscimento della Repubblica, un modo di augurarle fortuna e libertà.
Il Papa entrava come ospite - sia pure ospite d'onore - in un palazzo di cui era
stato sovrano e padrone assoluto. E nulla dava più gioia, a lui ed al
paese che lo aveva invitato nella persona del suo capo democratico, che questo
mutamento di prospettive, che questa rinunzia ad antichi e legittimi diritti. Il
«nuovo ordine di rapporti umani» si faceva per Papa Giovanni evidente
anche in questo.
In mezzo ai reparti scintillanti sotto il sole di maggio,
non era più il sovrano, il Papa-Re che tornava al Quirinale, ma soltanto
il Pontefice che andava a ringraziare il capo del paese di cui era stato
cittadino e soldato esemplare, per un premio in cui erano significate tutte le
sue benemerenze nei confronti della pace.
Segni era commosso, il Papa
anche. Prima di cominciare il discorso di risposta e di ringraziamento, Papa
Giovanni - con citazione estemporanea del Vangelo - chiese il permesso di
leggere il proprio indirizzo da seduto invece che di in piedi. Tutti sorrisero,
e tutti credemmo che si trattasse di una delle consuete «trovate», con
le quali aveva sempre saputo scongelare i rigori della burocrazia e del
cerimoniale. Pochi sapevano, oltre lui, che era invece il segno di uno
sfinimento totale che non gli avrebbe più consentito di poter restare a
lungo in piedi.
Nel discorso fu particolarmente umile e grato. «Questa
nostra presenza qui - disse - prende di fatto particolare significazione
dall'antico appellativo di servus servorum Dei. Questo riconoscimento di
servizio si irradia su tutta la Chiesa e ne conferma l'esercizio al di sopra dei
clamori contingenti e delle contrastanti variazioni, che in tempi passati
vollero interpretare o limitare i gesti dei nostri predecessori. Ricordiamo
Benedetto XV, Pio XI, Pio XII e tutta l'opera che il Romano Pontificato ha
svolto a tutela della pace, particolarmente nelle tragiche vicende che hanno
contrassegnato il secolo ventesimo. Sì, la Chiesa cattolica è
artefice e maestra di pace. Lo diciamo con tranquilla coscienza».
Papa
Giovanni, fra riga e riga, alzava gli occhi e si guardava intorno: trovava
consentimento in tutti, e una grande, presàga commozione. E concludeva:
«Il consentimento che traluce dai vostri occhi, che sale dai vostri cuori
esprime lo stato d'animo che è vostro e dei vostri popoli. Il nostro voto
è che questo consentimento continui; si rafforzi sempre più sopra
il laborioso e generoso popolo d'Italia e sopra tutti i popoli del mondo a noi
egualmente diletti; produca frutti di promettente fecondità,
affinché su tutti gli uomini, consacrati alle pazienti conquiste del
sapere, alle opere del lavoro, alle cure della famiglia, splenda luminosa la
stella della pace, a indicare il sicuro cammino sulle vie della serenità,
della comprensione, dell'amore. Questo è il voto che nella sosta fatta or
ora nella cappella mariana dell'Annunciazione abbiamo confidato con tenerezza
alla Madre di Gesù e nostra; questo voto vi esprimiamo con cuore commosso
e ferma speranza, per nulla sorpresi delle difficoltà immancabili che si
frapporranno al raggiungimento del santo ideale».
Vi furono
convenevoli, saluti, ossequi. Papa Giovanni non mancò, dietro invito del
presidente Segni, di affacciarsi ad un balcone del palazzo, per guardare,
lontana, la cupola di San Pietro. «La conosciamo», pare dicesse
argutamente al presidente. Il Papa era venuto «di qua dal Tevere»,
aveva salito come «servo dei servi di Dio», in nome della pace
universale, le scale di un palazzo che per secoli era stato dei Pontefici. Ora
prendeva atto, sorridendo, e con gratitudine, che le antiche contese ed i
recenti attriti potevano e dovevano essere considerati superati per sempre. La
pace riuniva coloro che tante guerre avevano diviso.
Pio XII, nel 1939,
aveva varcato anch'egli il Tevere, aveva salito, umile e angosciato, quelle
stesse scale, in visita a Vittorio Emanuele III di Savoia, per scongiurarlo a
non permettere che anche l'Italia precipitasse nel baratro della guerra. I Papi
tornavano in Quirinale soltanto per parlare di pace.
Al momento del congedo
fu come se, di colpo, un presentimento anzi la sicurezza di non rivedere mai
più quelle persone e quei luoghi, prendesse Papa Giovanni. Dopo la
stretta di mano, il Papa aperse le braccia, superò il cerimoniale e il
protocollo, e accennò ad un abbraccio affettuoso verso il presidente
dicendo: «A lei e alla diletta Italia!».
Quello al Quirinale era
il suo ultimo viaggio fuori del Vaticano.
Lo aveva compiuto per dire parole
di pace. E quell'abbraccio imprevisto era il suo modo il più affettuoso e
cordiale - di dire addio all'Italia.